Reduce da poco meno di un mese di immersione giornaliera nel mondo di Cyberpunk 2077, non posso fare a meno di interrogarmi sull’evoluzione che il medium videoludico continua a macinare, nella costante scalata verso l’affermazione definitiva come un’arte unanimemente riconosciuta. Arrampicata difficoltosa la sua, tanto ostracizzata ai piani alti della critica benpensante, che così spesso lo ha bollato come divertimento senza scopo, grande ostacolo nel sacro passaggio all’età adulta, quanto frenata nel quotidiano da coloro che così poco abituati al nuovo lo rifuggono, dopo un rapido vaglio nelle migliori occasioni, annichilendone qualsivoglia possibilità creativa e formativa che in una versione utopica della realtà avrebbe chissà, forse convinto l’avvocato accusatore.
Mi chiedo a chi spetti l’onere della prova in questo caso. Secondo la definizione, proprio a colui che invoca un determinato fatto a sostegno della propria tesi. Ma chi si ritrova ad impersonare la figura che nell’aula di tribunale, ad oggi fortunatamente stracolma di testimoni, si erge con veemenza puntando il dito? Il videogiocatore? L’industria stessa? Oppure questo ruolo calza alla perfezione su colui che, screditandone la validità, mira a non farsi carico del doverci avere a che fare, dell’essere costretto a rimescolare il proprio spettro di valutazione, per adattarlo nei confronti di una massa informe che ancora non comprende?
Il vecchio discorso sul “tempo trascorso dalla nascita” di un nuovo medium ha certamente il suo peso, l’eterno confronto con il cinema è fiutabile in ogni tentativo di validazione, ma questo non è certo un male, l’essere paragonato ad una delle nove arti conclamate non può che rappresentare un dovuto passaggio affinchè il videogioco riesca nell’omerica impresa. E del tempo è certamente trascorso dai primi tentativi di creazione, al termine degli anni ’40, di una realtà virtuale dal potenziale incolmabile. Pare quindi che una risposta sia già disponibile ai più: ad oggi il videogioco rappresenta un mercato in continua espansione, di sempre maggior interesse non puramente ludico, ma personale, emozionale, formativo, esperienziale e per forza di cose, economico.
Ben lungi dalla conclusione di un percorso che, in realtà, c’è da sperare non termini mai, mi viene spontaneo quindi ragionare sulle armi imbracciate dai detrattori del medium nel tentativo di affossarlo, o più banalmente di relegarlo a materia di poco conto. Ritornando alle domande poste sopra, mi convinco che pur scegliendo di vedere nei panni dell’uomo con braccio teso e dito puntato colui che il videogioco lo denigra, per amore di una cosa si sia disposti a chinare il capo e scegliere di presentare, almeno in parte, la prova del contrario.
Una delle principali critiche poste nel riguardo di numerosi titoli videoludici è la violenza come espressione gratuita di una qualche sorta di sadismo inespresso, un innesco per perversioni inattuabili nella realtà. Episodi spiacevoli hanno purtroppo contribuito alla creazione della chimera, esponendo il fianco a spesso poco ragionate insinuazioni. Innegabile che la veicolazione della soddisfazione sia passata spesso all’interno dei videogiochi attraverso l’utilizzo della violenza, cionondiméno ritengo il muoversi su tematiche scottanti, sgradite e spiacevoli, necessario alla personale autoaffermazione del medium.
E qui mi ricollego a Cyberpunk e al mondo creato da Mike Pondsmith prima, da CD Projekt Red dopo. Un universo dettagliato, preciso ed estremamente crudo, dotato di regole ben precise. La violenza, fisica e non solo, permea la totalità del tessuto cittadino di Night City, dove marci sobborghi non pongono alcun freno alla deviazione mentale degli abitanti, liberi di sfogare le fantasie più celate, scadendo non raramente nell’orrorifico. È sufficiente inquadrare il mondo delle Braindance illegali, le esperienze neuronali che permettono di vivere in prima persona eventi ai quali non si prenderebbe mai parte, come l’uccisione di una persona o alcune pratiche sessuali estreme. Ho forse ragionato realmente per la prima volta sull’importanza delle classificazioni PEGI, ESRB e simili, chiedendomi come avrei reagito e quale impatto avrebbe avuto su di me giocare a Cyberpunk da molto giovane.
Al giocatore non viene permesso di accedere alla visione diretta dei filmati più espliciti, il contrario avrebbe probabilmente rappresentato un’arma tagliente afferrata nel punto sbagliato, per non aggiungere una quasi certa impreparazione da parte del pubblico generalista. Ciò non impedisce però una totale immersione nel sudiciume che accettiamo di farci raccontare una volta scostato il nemmeno tanto celante velo di Maia che all’origine del gioco non ci permette di comprendere appieno il vero nucleo della città. Mi sono ritrovato a chiedermi, all’interno di una missione secondaria avanzata che non spoilererò, se ricordassi altri esempi videoludici in cui tanto veniva osato. Non è affiorato nulla. Certo Cyberpunk arriva ad un punto già avanzato del percorso, ponendo una sovrastruttura sulla base di una strada lastricata da coloro che lo hanno preceduto, ma mai come in questo caso ho percepito il videogioco come un elemento adulto, osante perchè consapevole di poterlo fare, pronto ad assumersi i rischi del colpo di frusta che ritorna al mittente.
Mi domando quando la creatività di uno sviluppatore potrà osare al punto da risultare disturbante e scomoda nella forma più cruda dei termini, quando e se potranno mai esistere un Von Trier o un Lynch videoludici pronti a farsi carico delle critiche più aspre, con l’unico scopo di portare avanti una battaglia di affermazione che non potrà esimersi dal navigare nelle acque buie di temi e sentimenti brutali. Qualcuno disposto ad attraversare un sicuro processo alle intenzioni per garantire un giorno ai videogiochi un rispetto paritario al mondo del cinema.
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