Scrivere di Death Stranding non è impresa facile. L’ultima fatica della Kojima Productions presenta infatti profili di gameplay e sensazioni interne difficili da estrinsecare con la parola scritta. La sensazione donata dalla consegna dell’ennesimo pacco è di ardua decodificazione e, contando la difficoltà aggiuntiva data dal non volervi svelare nulla sulla trama, trasmettere i quasi perenni brividi sulla pelle che ho avuto mi sembra impresa titanica. Per queste ragioni sappiate che vi troverete davanti a un articolo forse scostante, forse grezzo e a tratti forse eccessivamente immaginifico. In fin dei conti Death Stranding nasce e si spegne come una disperata dichiarazione d’amore a una fallimentare umanità e in queste righe non posso che urlare con Hideo Kojima.
Soon I’ll come around/Lost and never found/Waiting for my words/Seen but never heard/Buried underground/But I’ll keep coming.
La storia di Death Stranding si apre con un’inesorabile profezia. Il mondo è stato più volte coinvolto da esplosioni che hanno condotto la razza umana sul baratro dell’estinzione e noi ci troviamo a raccogliere i cocci dell’ultima: il Death Stranding. Il forte senso di perdita e inesorabilità che Hideo Kojima vuole trasmettere al giocatore esplode fin dalla delicata sinfonia orchestrata dalle immagini in apertura del gioco. Le battute iniziali del viaggio di Sam trasportano immediatamente il giocatore nello status emotivo e nel ritmo di gioco voluti dal game director. Titoli di testa dal forte impianto cinematografico, scene di intermezzo dalla durata perfettamente bilanciata e la messa a nudo del gameplay che ci accompagnerà per l’interezza del viaggio si presentano come un chiaro manifesto di ciò che verrà. Questo a sottolineare la forte volontà autoriale ed espressiva di Kojima. Quest’impellenza potenzialmente spiazzante è però il vero punto di forza delle battute iniziali e dell’opera nel suo complesso. Se l’affresco si completerà infatti solo con lo scoccare dei titoli di coda la sensazione di vederne l’ossatura fin dai primi minuti accoglie il giocatore come una calorosa culla.
Ciò che viene richiesto all’utente è quindi compiere un’atto di fiducia, tendere la mano al gioco e farsi accompagnare in un viaggio duro, crudo e frammentato poichè consapevole che le risposte verranno. E così è. Ciò che all’apparenza può risultare superficiale o poco chiaro viene sviscerato in ogni minimo dettaglio e passo dopo passo, ora dopo ora, il messaggio disperatamente urlato da Death Stranding investe con lucida agonia il giocatore. Ogni tassello esiste in funzione del mondo imbastito da Kojima, il quale decide infatti di piegare alla volontà narrativa aspetti di gameplay classici e spesso quasi scontanti di un videogioco. L’intenzione di offrire un’esperienza pensata e voluta in ogni singolo dettaglio comporta infatti un non potersi e un non volersi distaccare dalle regole che la narrazione impone anche a costo di frustrare il giocatore. La morte nel mondo di Death Stranding ad esempio ha delle ripercussioni gravissime e per queste ragioni il giocatore che sceglierà, seppur fortemente scoraggiato, di uccidere altri esseri umani dovrà sobbarcarsi tutte le conseguenze e le ore di gameplay che derivano delle sua azioni.
Questo insieme da vita quindi a un titolo artisticamente spiazzante. Visivamente Yoji Shinkawa ha generato un immaginario fantascientifico capace di penetrare cuore e testa e farne la propria tana. La funebre disperazione emessa dalle Creature Arenate si ancora allo stomaco e la paterna tenerezza per il BB si concretizza passo dopo passo. La lenta connessione con le figure chiave della sceneggiatura ci porterà a scoprire un mondo che avamposto dopo avamposto non vorremo più abbandonare. L’idea di vederne di più, di assaporare ancora e ancora quelle emozioni che ogni elemento di scena trasmettono si deposita sul proprio corpo diventando una seconda pelle che raggiunti i titoli di coda ci sentiremo brutalmente strappare via.
A silent, faulty feeling/A silent fault/ A silent, faulty feeling/A silent fault/I sigh and fall to the ceiling/I sigh and run to the kneeling/Asylums for the feeling.
Il punto di forza di Death Stranding è la narrazione. Il racconto scritto da Hideo Kojima nasce come reinterpretazione del mito della frontiera. L’america è ormai disconnessa è per poter raggiungere la costa ovest degli Stati Uniti d’America Sam dovrà partire da quella est e connettere città dopo città, avamposto dopo avamposto. Il parallelismo con l’epoca coloniale è quindi spontaneo e immediato ma minuto dopo minuto la maschera di cera è destinata a sciogliersi. A un certo punto infatti il viaggio esaurisce la sua funzione di significato e diventa significante. Lo scopo iniziale di Sam si rivela nulla più che un pretesto per poter raccontare ciò che davvero opprime l’estro creativo del narratore. Kojima ne esce come un uomo spaventato di un futuro di cui è conscio. Nella realtà dei fatti ci sono conseguenze che l’uomo non può evitare ma può addolcirne la venuta.
Il discorso che limpidamente rimane alla fine dell’esperienza spiega l’urgenza narrativa di Hideo e la sua voglia di arrivare a tutti. Death Stranding è un atto di amore verso il videogioco, verso il giocatore e verso una razza umana che deve smettere di illudersi di essere perfetta. I nostri mezzi di comunicazione e la nostra perenne connessione a una rete centrale non sono un problema ma lo è l’impianto valoriale della società all’interno della quale li usiamo. La critica non troppo velata agli Stati Uniti, in quanto modelli di riferimento, appare quindi cristallina quanto delicatamente pungente.
L’indelebile marchio di speranza apposto a quest’intimo urlo non si palesa però nel percorso da seguire per arrivare a comprenderlo. La storia di Death Stranding trascina costantemente il giocatore verso momenti strazianti, storie pugnalano il cuore e personaggi che in nome di speranze potenzialmente vane hanno perso tutto. Sì, si può amare l’umanità, ma per farlo è necessario spogliarla e martoriarla. Viviamo illusi e ci aggrappiamo inconsciamente a qualsiasi pretesto possa darci la spinta per trovare il nostro posto nel mondo. L’umanità non è altro che un sacco di sangue e feci incapace di provare qualcosa dal contatto reciproco. Ma questo contatto c’è e ne siamo quotidianamente alla ricerca. La sofferenza e il sacrificio in Death Stranding diventano quindi il catalizzatore per arrivare a comprendere che nonostante la nostra fine sia vicina il tocco della carne, il tocco di una mano, possono addolcire questa inevitabile caduta.
See the sunset/The day is ending/Let that yawn out/There’s no pretending/ I will hold you/And protect you/So let love warm you/Till the morning/ I’ll stay with you/By your side.
La forte identità tematica del titolo permea anche il gameplay. Death Stranding adotta una formula ludica semplicissima quanto stratificata. Il giocatore sarà chiamato ad effettuare consegne e nel farlo incapperà in risvolti di trama e situazioni dal forte impianto stealth o action. Le sequenze con le CA o il dover passare nei campi dei Muli o degli Homo Demens ci costringeranno infatti ad un approccio silenzioso. Lo stealth imbastito dal papà di Metal Gear è esclusivamente visivo. Non ci sono segnali o allarmi ma ci si deve affidare o all’Odradek sulla propria spalla o alle proprie intuizioni visive. Il sistema funziona dannatamente bene, soprattutto quando dovremo fare i conti con le difficoltà causate dall’ambiente o dall’ingombro generato dai pacchi sulla nostra schiena. Lo shooting, rappresentando una meccanica minima del gioco ed essendo tranne in rarissime situazioni fortemente disincentivato, è ridotto all’osso. Per il ruolo che deve ricoprire è però impeccabile ed estremamente soddisfacente.
Tornando alla consegna dei pacchi il gameplay e il world design costruito attorno alla meccanica centrale sono sbalorditivi. La microgestione del carico è un connubio molto riuscito tra elementi arcade ed elementi simulativi. Il senso di progressione consegna dopo consegna è tangibile così come è tangibile il netto miglioramento ogni nuovo pezzo di equipaggiamento ottenuto. Progredire nella storia e dedicarsi alle consegne secondarie aprirà le porte del giocatore a strumenti essenziali ed infrastrutture capaci di superare avversità ambientali inizialmente titaniche. Ampliare la forza della Rete Chirale ci permetterà inoltre di poter utilizzare sempre più strumenti rendendo quindi necessario spendere tempo in attività secondarie per poter ottimizzare alla perfezione il percorso. A ciò si aggiunge la possibilità di utilizzare veicoli, il cui controllo è decisamente imperfetto, e la possibilità di scansionare il terreno e i corsi d’acqua per valutarne ripidità, profondità e facilità di percorrenza.
Il gameplay risulta così stimolante e vincente grazie a quel capolavoro di game design che è la geomorfologia del territorio. Il mondo non è infatti generato proceduralmente o randomicamente ma pensato e studiato in ogni sua sfaccettatura. Per queste ragioni ci sono svariati percorsi per raggiungere il proprio obiettivo e il corriere avrà il compito di utilizzare i pochi strumenti in suo possesso nel modo più creativo e ludico possibile. La sfida vera di Death Stranding è quella data dall’ambiente. I nostri rivali sono le montagne, i fiumi, la cronopioggia e le gigantesche distese d’erba. Il giocatore deve pianificare ogni singolo viaggio e scegliere se fare una consegna in più o portarsi dietro strumenti per ottimizzare il percorso in corso d’opera in vista del doverlo poi ripetere più e più volte.
Nonostante la formula ludica sia quasi impeccabile nella sua realizzazione i difetti ci sono e pesano sull’esperienza. Le criticità sono da ricercarsi non nel gamplay in sè, ma nella sua riproposizione. Il giocatore infatti vedrà la formula riproporsi incessantemente e a tratti per una durata eccessiva prima di uno stacco di qualsiasi tipo. Il multiplayer asincrono può ridurre queste sensazioni negative in certe fasi ma l’errore nel bilanciamento rimane palese. Va aggiunto inoltre che le boss fight, uno dei due soli elementi che spezza un po’ il game loop, sono estremamente ripetitive e c’è un enorme divario tra la loro spettacolarità visiva e la loro disarmante banalità nelle meccaniche vere e proprie. Ultima criticità è rappresentata dal non poter prevedere quale sarà il compenso delle consegne secondarie. Questo comporta una forte frustrazione quando incarichi molto complessi ci daranno poco ed incarichi molto semplici ci daranno quanto raggiunto in ore e ore di gioco.
Weight/Heavy bones/Bloody eyes/Sweaty clothes/New routine/Bit of land/To understand and know/Play my tricks/Fragile mind/Rest your head/On me/Shut my eyes/I’m not here/There must be some mistake.
In Death Stranding la connessione gioca due ruoli ulteriori rispetto all’espediente narrativo. Il primo di questi è la meccanica più interessante offerta dal titolo, ovvero il suo concetto di multiplayer. Imbastendo un qualcosa di mai visto e realmente innovativo Kojima elimina qualsiasi tipo di interazione negativa tra utenti e suddividendo l’utenza in istanze che tengono conto dei progressi raggiunti permette alla community di plasmare insieme il mondo di gioco. Ogni struttura da voi posizionata sarà fisicamente presente nella partita altrui e viceversa. Questo, grazie a un sopraffino bilanciamento e al fatto di non vedere le strutture nelle zone non ancora connesse, non sfocia mai in una presenza eccessiva di strutture. La Rete Chirale ha inoltre dei cap progressivi quindi il singolo giocatore è limitato in ciò che può e sceglie di collocare nella mappa. Le strutture altrui sono ovviamente distruttibili ma ciò avrà impatto solo nella propria partita. Sarà inoltre frequente incappare in pacchi sperduti da altri corrieri come noi e potremo scegliere se effettuare la consegna al posto di un altro giocatore oppure consegnare in una stazione apposita il pacco nella speranza che lui vada a recapitarlo. A premiarci per le nostre azioni ci saranno dei like assolutamente inutili per qualsiasi progressione di gioco.
Questo meraviglioso sistema porta al secondo ruolo aggiuntivo giocato dalla connessione. Il senso di appartenenza che progressivamente si sviluppa, unito con un gameplay assuefacente, pone infatti il giocatore in una condizione non dissimile da quella dei Muli. Dopo qualche ora sarà impossibile smettere di consegnare pacchi e ne saremo dipendenti. Qua però entra in gioco il punto più alto di Death Stranding. L’assenza di rewards tangibili ricevuti dagli altri giocatori e da parte degli NPC una volta raggiunte le cinque stelle con un avamposto porta il giocatore a interrogarsi sulla ragione delle proprie azioni. Perchè agire per il puro senso di piacere datoci dall’ossitocina generata dal riconoscimento quando possiamo compiere un gesto per aiutare il prossimo? La connessione costante col giocatore terzo porta una graduale rivalutazione del gesto per il gesto grazie a un’iniziale e continua iniezione di gratitudine. I suoni estremamente simpatici e le interfacce colorate ci invogliano a consegnare e ottenere qualcosa in cambio ma giunti a un certo punto della trama il tutto risulterà così reiterato e così privo di importanza da farci riflettere sul vero senso dell’azione in gioco e specularmente nella vita reale. Death Stranding tocca corde vive del quotidiano e riesce a cambiare la prospettiva della persona non soddisfatta del suo modo di connettersi al mondo e agli agli altri.
I know your voice, I know your face/This is something I cannot replace/Give me hope and give me doubt/Well I loved you then but I don’t love you now/I’m a long way from home.
Due elementi chiave rimangono da sviscerare: il lato tecnico e il lato sonoro. Death Stranding utilizza il Decima Engine portandolo a livelli incredibili. Il gioco gira perfettamente e senza quasi compromessi sulla Play Station 4 base e non presenta alcun calo di frame rate in situazione dove il disastro su una macchina vecchia sembra inevitabile. Gli ambienti sono di un realismo di rara fattura e la tangibilità del terreno, delle rocce, della pioggia e dei corsi d’acqua sarà ardua da eguagliare. Il motion capture è senza precedenti e il cast, soprattutto grazie alla presenza di attori di altissimo livello, dona delle interpretazioni capaci di far invidia alla loro controparte reale. L’intensità generate dalle loro parole, dai loro gesti e dalla loro mimica facciale investe lo spettatore e lo invoglia a muoversi da scena di intermezzo a scena di intermezzo. La regia di Kojima e la scrittura dei personaggi, della quale purtroppo non posso dirvi di più, dimostrano la maturità di un autore che lavora nel settore da decenni. La delicatezza e la fragilità con cui intercetta dolore e malinconia dei suoi personaggi commuove il giocatore passo dopo passo.
Per quanto riguarda la colonna sonora va distinta l’original score dalla soundtrack. La collaborazione coi Low Roar e i Silent Poets emerge infatti in momenti di gioco precisi e i loro brani assumono quasi una veste diegetica. In specifici momenti certe zone di mappa sembrano infatti composte dai brani stessi e si legano ad essi in maniera indissolubile. In situazioni ripetute o durante le cut-scene invece ci sarà spazio per la colonna sonora originale. In entrambi i casi il gusto musicale dell’autore è perfettamente calato nel contesto. La scelta dei brani e capace di smuovere da sola emozioni e sensazioni uniche e in numerosi casi riesce a distruggere l’anima del giocatore. Indimenticabili sono anche gli effetti audio in sè. Il jingle dei like, i versi di BB e i suoni emessi da rilevatori o dall’Odradek sono talmente ben riusciti da rimanere nella testa anche a sessione di gioco finita. Il lavoro sull’aspetto sonoro è quindi magistrale in ogni suo aspetto.
And life is such a wonderful waste of time/I wanna spend it with you/On my mind/Life is such a wonderful waste of time/I wanna spend it with you
Death Stranding è una perla grezza. Alcuni aspetti non funzionano bene quanto gli altri e la formula avrebbe sicuramente giovato di un maggior bilanciamento in numerosi situazioni. Nonostante ciò l’opera di Kojima Productions è un capolavoro e uno dei giochi più importanti della generazione e per il medium in quanto tale. I temi trattati, i modi in cui li narra e la voglia di arrivare non al giocatore ma all’essere umano in quanto tale rendono il progetto qualcosa di unico e irripetibile. La ricerca assoluta e non mediata di un’autorialità indubbiamente destinata a scontrarsi col gusto di molti dimostra come chi sviluppa videogiochi sia a tutti gli effetti un artista e in quanto tale permei della propria visione il gioco. Death Stranding rinnova la potenza del videogioco e sfrutta la sua pervasività. Il viaggio di Sam è il viaggio interno che ciascuno di noi deve compiere e viverlo passo dopo passo in game ci porta a viverlo parola dopo parola nella realtà. Hideo Kojima auspica la nascita dell’Homo Ludens teorizzato da Johan Huizinga e con Death Stranding pone la prima pietra. Perchè sì, il gioco funziona in primis come videogioco e su stesso costruisce un impianto tematico-narrativo di rara bellezza.
Death Stranding mi ha cambiato facendomi riflettere sul mio approccio quotidiano con gli altri. Ho capito miei determinati difetti e rivalutato il mio pensiero su certi aspetti del quotidiano che mi circonda. Quello che Kojima ha voluto narrare è un virtuale abbraccio a una comunità umana che ama più di ogni altra cosa. La fobia del contatto può essere superata solo comprendendo il vero valore di quel contatto. Valore nascosto da numerose sovrastrutture, da numerosi preconcetti e da infinite paure che ci portiamo dietro. La storia piena di colpi di scena e momenti strazianti imbastita, giunti ai titoli di coda non è nulla più che un bellissimo pretesto per urlarti in faccia abbracciami prima che sia tutto finito. Dopotutto, come già cantava il grandissimo Leonard Cohen:“dance me to the end of love”
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